4 novembre 1966: oggi sono passati 50 anni, mezzo secolo, da quel giorno. Per la maggioranza è una data che fa già parte della storia, seppure contemporanea, di Firenze. Ma io sono fra quelli che c’era, che l’alluvione l’ha vissuta anche se da comprimario, perché la fortuna ha voluto che abitassi in una zona non raggiunta dall’acqua dell’Arno. I miei sono i ricordi di un bambino di 11 anni e forse, proprio per questo, indelebili.
L’alluvione per me è il puzzo di nafta. Quell’afrore, misto a fango, che si respirava in ogni strada, anche molti giorni dopo che le acque limacciose dell’Arno erano tornate al loro posto (la piena aveva scardinato le cisterne del gasolio per il riscaldamento che popolavano i sotterranei della città). Un odore intenso, penetrante, impossibile da eludere. Impossibile da dimenticare.
L’alluvione per me sono le pentole allineate nella vasca da bagno. Bisognava catturare l’acqua nei brevi periodi in cui veniva dal rubinetto. Le code con fiaschi e taniche quando arrivava l’autobotte del Comune. Le candele per fronteggiare le improvvise interruzioni di corrente.
L’alluvione per me è il babbo che usciva con le calosce. Doveva andare a portare qualcosa da mangiare ai miei zii “assediati” dall’acqua al quarto piano di uno stabile in via Ghibellina. La preoccupazione per i nonni che abitavano in San Frediano. La mia cuginetta ospite-sfollata a casa nostra.
L’alluvione per me è spalare il fango dal negozio di mio zio. Un negozio di parrucchiere per signora, “Valentino”, in via Tornabuoni (dove ora c’è il negozio Tod’s). Un negozio bellissimo, pieno di vetrine e specchi, in quegli anni il top in Italia e nel mondo. Ricordo i caschi, dove le signore infilavano il capo agghindato di bigodini, storpiati dalla furia della piena. Le grandi poltrone in pelle accumulate in un improvvisato cimitero di oggetti. Un locale elegante e raffinato, completamente violentato dalla furia della piena.
L’alluvione per me è la strisciata nera lungo i muri dei palazzi. Indicava il livello al quale era salita la miscela di acqua, fango e gasolio. Mi sembrava impossibile che solo qualche ora prima, se fossi stato lì, ne sarei rimasto completamente sommerso. Ricordo il centro storico improvvisamente monocromatico. Tutto color marrone. Le strade, le vetrine, le facciate. I volti di chi, schiena piegata, senza un lamento, spalava via la melma e ammucchiava carcasse, detriti e ricordi di una vita sul marciapiede. Ma non c’era rassegnazione. Nessuna traccia di auto commiserazione. Firenze covava già il futuro.