C’era una volta la campagna elettorale fatta con i volantini, le auto con altoparlante sul tetto, i comizi di piazza (sempre affollatissimi) e i manifesti attaccati sui muri. Da quei grandi poster, faccioni sorridenti di candidati, più o meno conosciuti, ammiccavano al potenziale elettore con promesse o inviti. Erano gli anni del dopoguerra e del boom economico.
Travolto prima dalle tv private, poi da internet, infine dai social, questo modo di pubblicizzare nomi e partiti è scomparso. Ma non completamente.
Come una sorta di residuati bellici di quando la battaglia politica animava strade e piazze, o, se preferite, quasi reperti di archeologia elettorale, puntuali ad ogni elezione spuntano i tabelloni metallici per ospitare i manifesti di propaganda. I Comuni sono obbligati a predisporli, lo prevede una legge del lontano 1956 che detta misure e numero.
Col trascorrere degli anni questi tabelloni si sono progressivamente impoveriti. Molti riquadri rimangono vuoti oppure vengono proditoriamente sfruttati per attaccarvi manifesti abusivi. Sempre meno i candidati che affidano al proprio primo piano la possibilità di convincere un passante a votare per loro. Al limite poteva servire quando c’era maggior legame col territorio: in tempo di collegi uninominali, preferenze abolite e candidati paracadutati, appare una pratica veramente inutile.
La riprova è che molti tabelloni allestiti nel Comune di Bagno a Ripoli (ma la stuazione non è diversa altrove), a due settimane dal voto, sono ancora intonsi. Una inutile spesa per le casse pubbliche. Finché era un sistema per dare a tutti la possibilità di farsi conoscere, niente da obiettare. I costi di qualsiasi strumento rafforzi democrazia e pluralismo sono un investimento sulla nostra libertà. Ma se questa è la situazione, ha ancora un senso sprecare risorse per una esposizione del nulla?
A questo punto usiamoli per spazi pubblicitari commerciali almeno il Comune recupera un po’ di soldi
P