Chi visita il cimitero monumentale delle Porte Sante, sulla collina di San Miniato, non può fare a meno di notare le statue di due giovani, uno di fronte all’altra. La loro storia struggente è raccontata in un post su Facebook del collega Giovanni Bogani, giornalista dalla penna raffinata, acuto critico cinematografico e brillante scrittore. Vale la pena di leggerla.
Se ti capita di passeggiare nel cimitero delle Porte Sante, li vedi. Sono bellissimi. Immacolati, giovani. Lui è in divisa: figura dritta, posa gentile. Lei ha i capelli ondulati, un viso un po’ alla Alida Valli. È giovane. Ha le dita delle mani affusolate, è leggermente protesa verso di lui. Si tengono per mano. Come se ballassero.Sono due statue a grandezza naturale, in mezzo agli olivi, in mezzo al silenzio pacificato che c’è nei cimiteri. Due figure da cinema classico: vengono in mente gli attori della Hollywood degli anni Quaranta, Robert Stack in divisa da aviatore e Carole Lombard, bellissima, in “Vogliamo vivere!” di Lubitsch.
E allora, mentre stai camminando in questa primavera surreale, fatta di solitudine, ti fermi. E ti chiedi: ma chi saranno stati, questi due giovani? Quale amore li legava? Quale il loro destino? Lui, in divisa, è morto in guerra? E combattendo da quale parte?Questa storia, una delle molte che questa città racchiude, l’ha raccolta, custodita, approfondita un ricercatore milanese, Massimo Tafi. Che insieme alla fotografa Elisabetta Cacioppo ha cercato, nei cimiteri di tutta Italia, storie di gente qualunque che nascondono una densità inattesa. Ha martoriato archivi comunali, registri parrocchiali, collezioni di quotidiani dell’epoca: ha trovato nomi, date, corrispondenze. Ha ricostruito vite intere. Il risultato è un piccolo libro, “E serbi un sasso il nome. Straordinarie storie comuni affidate a una lapide”, edito dall’editore ligure Pentàgora. Una delle storie è quella dei due ragazzi. Raccontata anche in un altro libro, “Per le antiche strade di Firenze”, scritto da Barbara Chiarini per Il masso delle Fate.
E così, scopri che quei due giovani bellissimi non erano due fidanzati, ma due fratelli. Si chiamavano Mario e Maria Grazia Mazzone. La madre, Emma Spulcioni, era una stilista molto conosciuta: Mario e Maria Grazia sono figli della borghesia fiorentina, cresciuti nella Firenze degli anni ’30 in cui tutto sembrava filare liscio. Poi arriva la guerra. Che, dopo l’8 settembre 1943, arriva a lacerare ogni famiglia, in Italia. Mario, aviere marconista, ha ventiquattro anni quando arriva la chiamata della Repubblica sociale. Non vuole raggiungere le milizie di Salò, l’avventura lugubre e suicida degli ultimi mesi di Mussolini. Ma viene catturato, e portato via dai tedeschi. Finisce ad Hamm, in Westfalia.
Maria Grazia ha appena vent’anni: è fidanzata con un aviatore che invece ha scelto, senza pentimenti, la Repubblica sociale. Andrà al nord, per ricostituire l’aviazione fascista a Como. Maria Grazia decide in fretta: si sposeranno, nel marzo 1944, prima che Francesco lasci Firenze. È primavera, ma il sole è come oscurato dalla tragedia che si respira nell’aria. Dalla stazione di Santa Maria Novella l’8 marzo erano partiti i carri bestiame sigillati destinati a Mauthausen, pieni di operai che avevano partecipato a uno sciopero spontaneo. Ne tornò a casa uno su dieci.
In questo clima, si svolge il matrimonio: fiori, sorrisi tirati, pochi invitati. Mario è assente, le sue ultime lettere vengono da Hamm, in Germania. Francesco, lo sposo, parte subito, destinazione Como. Restano, a Firenze, madre e figlia, Emma e Maria Grazia, a sperare nella Liberazione, nell’arrivo degli Alleati, a sperare in un tempo non divorato dall’angoscia, dalla morte, dalla paura. Quel tempo non verrà mai. Maria Grazia scopre di avere la tubercolosi: in quegli anni,di tubercolosi si moriva. E il mese successivo, arriva la notizia che le due donne temevano di più: Mario è morto, ucciso da una bomba americana mentre era al lavoro insieme agli altri prigionieri. Mario muore a 23 anni, nell’aprile 1944.
Maria Grazia, che ha appena vent’anni, non raggiungerà mai il marito a Como. Sul registro della parrocchia di San Remigio, nella zona di Santa Croce, si legge: “alle ore 3 del 31 maggio 1945 è passata a miglior vita la signora Maria Grazia Colella, coniugata con Franco Colella”. Di lui si perdono le tracce: non si sa dove sia finito, nei giorni convulsi e sanguinosi in cui moriva la Repubblica sociale.
Emma, la madre di Mario e Maria Grazia, ha perso nel giro di un anno due figli giovani, belli, luminosi. Pensa a come tenerli per sempre vicini. Recupera i resti di Mario dal cimitero di Hamm, e sceglie il luogo che accoglierà lui e Maria Grazia: il cimitero delle Porte Sante. Lascerà che siano soltanto loro due a riposare lì, a San Miniato. Per sé e per il marito (Raffaele Mazzone) sceglie un altro cimitero, all’Antella. Vuole che siano soltanto loro a risplendere lì, a sorridersi, a stringersi le mani, per sempre. E fa erigere quella statua bellissima.
Andando a rivedere quella statua, può accadere di trovare dei fiori freschi. Ma la madre, Emma, è morta da tempo, e di familiari non ce ne sono più. Se qualcuno sa il seguito di questa storia, può farsi vivo. Magari se ne potrebbe scrivere il capitolo che ancora manca.